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TRADIZIONI

 

Nessuno ha mai potuto imbrigliare il cuore e spegnere in esso il grande sentimento che vi dimora e che nasce in tutti gli esseri viventi: l’amore. Da sempre questa fiamma accompagna la nostra vita, rendendola vera e meravigliosamente unica, anche un tempo era così, bastava uno sguardo tra due giovinetti a far scoccare la divampante scintilla. Da quel primo guardarsi i due giovani percorrevano tanta strada fino a giungere al giorno fatidico, al giorno nel quale avrebbero detto di sì davanti a Dio per tutta la vita. Il cerimoniale precedente a quel giorno era abbastanza complicato, fatto di rituali e usanze, a volte tribali, segno di un rispetto reciproco tra le famiglie che di lì a breve avrebbero dovuto stringere rapporti di parentela, per poi vivere insieme tutti gli avvenimenti, anche quelli più dolorosi, dell’esistenza terrena.

 

Il Matrimonio
Solitamente tre giorni prima della celebrazione del matrimonio, dopo aver arredato la casa degli sposi, si invitavano parenti ed amici, esclusi gli sposi (che non dovevano essere assolutamente presenti), e si “parava il letto”. Il talamo nuziale veniva addobbato con “il completo della prima notte”, lenzuola e coperta di organza o altri tessuti pregiati. Tutto il resto del corredo veniva poi sistemato con dei fiocchi ed esposto in maniera tale che i presenti, soprattutto i parenti dello sposo, potessero ammirarne la bellezza. Accadeva così che alcuni fidanzamenti si rompevano, proprio in questo giorno, a causa dei litigi che insorgevano tra le due consuocere a proposito della qualità e quantità del corredo.
Il giorno del matrimonio, all’alba, gli sposi accompagnati da una parente (la sposa non poteva stare da sola con lo sposo prima del matrimonio), si recavano in chiesa per confessarsi. Dopodichè, ritornati nelle rispettive case, la madre dello sposo mandava alla sposa una cesta, contenente l’abito nuziale e gli altri accessori, mentre la madre della sposa mandava allo sposo una cesta contenente sei o dodici fazzoletti, la camicia, la cravatta e gli indumenti intimi. Concluso questo rito, gli sposi si recavano in chiesa a piedi, a mo’ di corteo, con gli invitati e i “compari d’anelli” – testimoni – che secondo l’usanza del paese, avrebbero poi dovuto battezzare il primogenito. Mentre sfilavano per le vie del paese, le conoscenti, in segno di augurio lanciavano riso, “cugghjandri”(confetti) e caramelle. Dopo la cerimonia, le famiglie degli sposi offrivano il banchetto nuziale agli invitati. I piatti preparati erano: pasta chjna, capretto della festa, polpette e tantissimi altri contorni. Al termine del pranzo si offrivano biscotti, dolci ed inebrianti liquori, tutti fatti in casa. Dopo il matrimonio la sposa non poteva uscire di casa per sette giorni, fino alla domenica successiva, quando, indossando un abito appositamente regalatole dalla suocera, si recava con lo sposo in chiesa per la messa domenicale.

 

A Fujitina
Quello di cui si è precedentemente parlato era il matrimonio classico, c’era, però, anche il matrimonio celebrato in tutta fretta in chiesa di buon mattino o a tarda sera, senza alcuna pompa magna e senza l’abito bianco. Questa cerimonia era la conseguenza della celebre “fujitina”; si trattava di coppie di fidanzati che, non avendo mai ricevuto il consenso al matrimonio da parte di una o entrambe le famiglie, decidevano di “fuggire”. Tale atto costituiva un oltraggio alla onorabilità delle famiglie per le quali, al ritorno dei fuggiaschi, non c’era altro da fare che ricorrere al matrimonio “riparatore”. La coppia, così trionfante, convolava a nozze, vincendo l’odio dei genitori dissenzienti, odio che andava via via scemando, fino ad arrivare al perdono definitivo con la nascita del primo nipotino.

 

I jorni cuntati
Nel mese di Dicembre di ogni anno si ripeteva (ancora oggi si ascolta qualche vecchietto che ne parla) una tradizione, cosiddetta dei “jorni cuntati”, in base alla quale il quattordici cominciavano i jorni cuntati con termine al venticinque dello stesso mese. Ad ogni giornata si faceva corrispondere un mese – al quattordici il mese di Gennaio, al quindici Febbraio, e così continuando – convinti che le stesse condizioni metereologiche della giornata “contata” si sarebbero verificate nel mese corrispondente dell’anno che stava per venire: asciutto, piovoso, ventoso, caldo. C’era anche chi (sembra fossero in tanti), ne prendeva nota sul calendario, e andava poi a controllare se i giorni contati rispondessero a verità.

 

Santa Lucia
La giornata del tredici dicembre, ricorrenza della Santa protettrice degli occhi, era un giorno particolare per il quale, nell’attesa, si preparava “u ranu i Santa Lucia”, consistente in del grano che, tenuto a bagno per tre giorni, al mattino della vigilia, si bolliva. Ben cotto e freddato, si condiva con mosto-cotto ed era pronto da mangiare. C’era chi ne preparava in abbondanza, per chi non aveva avuto la possibilità di farlo, o per portarlo a parenti ed amici, ai quali se ne dava “na vrodera”(normale tazza piena di grano cotto). Questa consuetudine, che si mantiene intatta ancora oggi, serviva nella tradizione popolare, ad ingraziarsi la benevolenza della santa.

 

“U Cummitu”
Il diciannove Marzo di ogni anno, in occasione della festa di San Giuseppe, alcune famiglie benestanti, in segno di devozione al santo o ex voto e per “rinfrescare” le anime dei defunti, preparavano un piatto caldo a base di legumi e baccalà da offrire a dodici poveri, che rappresentavano i 12 Apostoli. Il pasto era servito a piedi nudi dalla padrona di casa, che in tal modo, spogliandosi “metaforicamente” di tutti i suoi averi, come Gesù, si metteva al servizio dei più bisognosi. Agli invitati, prima di andare via, veniva offerto il tradizionale “cucceddatu”.

 

“La Via Crucis”
In tutti i centri del marchesato, è tradizione celebrare il Venerdì Santo, una Via Crucis per le vie del paese. Quella che si svolge a Strongoli è veramente singolare ed a tratti folkloristica. La Processione parte la mattina presto dalla chiesa di Santa Maria delle Grazie. Apre il corteo lo stendardo del senato romano con la scritta S.P.Q.R., segue la statua dell’Ecce Homo, la croce con i Giudei, portata a turno dai fedeli, ex voto, con il caratteristico passo “avant’arreta”, la bara di Gesù e la Madonna Addolorata. Dietro la bara e la statua dell’Addolorata, gruppi di donne ed uomini intonano “il lamento”, un antico canto dialettale con il quale si esprime il dolore per la morte di Gesù. La Via Crucis si snoda per le vie del paese, ed ad ogni chiesa od altarolo viene rievocata la caduta di Gesù sotto la croce. Nel pomeriggio, quando
il corteo arriva in cattedrale, viene celebrata la cosiddetta “Messa alla Rovescia”, una messa priva di alcune parti, caratterizzata dall’adorazione della croce, dall’omelia sulla figura dell’Ecce Homo, sul significato della Croce di Cristo e sulla Madre di Dio, che, affranta dal dolore per la morte del Figlio, viene chiamata, al termine della funzione, dal Parroco, per riprendersi le spoglie del figlio morto. La chiamata della Madonna è scandita dal suono della tromba. IL corteo, quindi, prosegue per ritornare a Santa Maria delle Grazie.

 

“Il Lutto”
La perdita di una persona cara è sempre un evento drammatico, ma l’antico modo di esternarlo faceva venire i brividi. Alla morte del congiunto seguivano delle grida strazianti che facevano accorrere i vicini, poi si procedeva alla vestizione del defunto che, sistemato nella bara, veniva vegliato durante la notte dai parenti, dagli amici e, per spontanea iniziativa o per chiamata, da donne specializzate nel piangere sul cadavere che, strappandosi i capelli, esaltavano con cupe cantilene, i meriti del defunto. Inoltre si divideva un pane in quattro parti e lo si distribuiva ai bambini del rione – quest’offerta serviva a fare calmare i “quattro cani della caninea”- che così lasciavano passare l’anima del defunto. Sul comodino del caro estinto si accendeva una lampada, preparata con acqua ed olio, e su di un piatto veniva messo un bicchiere d’acqua ed una fetta di pane affinché il defunto potesse mangiare e bere quando ne avesse voglia. Nella bara, sotto il braccio del morto, si sistemava un asciugamano bianco e pulito, in maniera tale che dopo aver attraversato faticosamente il Giordano, questi potesse asciugarsi e presentarsi degnamente al giudizio di Dio. Nei giorni successivi, tutti gli arredi interni con specchi venivano coperti con tele scure, le donne della famiglia vestivano di nero per periodi lunghissimi, gli uomini non tagliavano la barba ed indossavano una cravatta ed una fascia nera in segno di lutto per un mese. Se la morte aveva portato via il capofamiglia, la moglie si scioglieva i capelli, si sedeva per terra e restava così per un mese. Durante il periodo del “lutto stretto” non si cucinava ed al vitto provvedevano parenti ed amici che portavano “u cunsulu”, pasto a base di brodo e cibi semplici. Affinché tutti sapessero del grave dolore che aveva colpito la famiglia, sull’uscio di casa veniva attaccata un drappo nero, che vi rimaneva fino a quando acqua, sole e vento non lo avessero ridotto a brandelli.

 

“Il pane dei Morti”
Un’usanza ancora oggi ripetuta, è l’offerta del “paniceddru dei morti” in occasione della ricorrenza dei defunti. Ogni famiglia, infatti, in quest’occasione, per “rinfrescare” l’anima dei propri defunti, offre ai più poveri un pane o un piatto caldo per ogni caro estinto, recitando, però, prima di consegnarlo, alcune preghiere per l’anima del defunto.

 

Costume tipico di Strongoli
Il costume popolare di Strongoli risale alla metà del settecento ed è composto da una camicia di orletta con corpetto di damasco o di velluto nero, un cammisotto di londrino, uno scollino di seta, una o più sottane, una gonna di damasco alla carmelitana, un ‘faldale’ di seta o di taffetà turchina – indicato nell’ottocento come mantesino – e uno scialle di seta che adornava le spalle.

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